Volontariato

Così cambia l’approccio con i pazienti. Per curare il malato ci vuole una rete

Due celebri oncologi valutano l’impatto delle nuove terapie, tra cui i farmaci chemioterapici orali.

di Romano Asuni

C?è un termine clinico odioso, un neologismo forse concepito da un burocrate in un momento di pessima digestione. è ?allettare?, che nel linguaggio sbrigativo dei luoghi di cura vuol dire, banalmente, mettere a letto. Ma quando in una corsia d?ospedale una voce sussurra o grida, dipende: “Hai allettato il 15 ?”, ci si rende conto che neppure un plotone di psicologi a tempo pieno potrebbe ragionevolmente rimediare al danno inferto al paziente 15. Quello, tu o un altro, è diventato il numero da ?allettare?. Talvolta è questo il primo impatto che il paziente oncologico subisce nella struttura che lo ospita quando ?deve essere curato?. Non sa ancora che, spesso, sempre più spesso per fortuna, gli stanno preparando intorno anche un ?percorso? e una ?rete? che dovranno accompagnarlo per tutto il suo itinerario, che potrà comprendere l?ospedale o la clinica, il day hospital, le cure a casa, l?hospice. Insieme, naturalmente, all?assistenza specialistica degli oncologi, agli infermieri professionali, il personale di assistenza e, quando si rende necessario, l?apporto di psicologi e assistenti sociali. Poi ci sono le organizzazioni di volontariato, una sorta di connettivo insostituibile fra la ?rete? e il paziente. Ma prima di ogni altro intervento c?è il contatto fra il paziente e lo specialista, o gli specialisti che lo devono seguire. Il dottor Roberto Labianca, oncologo medico agli Ospedali riuniti di Bergamo, ritiene che il rapporto col paziente vada graduato proprio in questo senso: il paziente dev?essere rassicurato, mai illuso però. E circa le terapie gli va detta la verità, anche rispetto agli effetti collaterali, che spesso possono essere abbastanza sgradevoli. “Nei primi incontri mi sforzo, com?è ovvio, di capire il paziente, il suo impatto con la realtà che sta affrontando. Perché da questo nasce l?impostazione del suo percorso terapeutico, di cui stiamo affrontando solo la prima tappa. Traumatizzarlo sulle sue condizioni o, peggio ancora, illuderlo, sarebbe partire col piede sbagliato. Il paziente va portato a chiedere, a informarsi”. Da quel momento in poi scaverà ogni sguardo e scorticherà ogni parola di medici, infermieri e chiunque gli passi accanto, per capire di più, sapere di più. “Io mi occupo soprattutto di chemioterapia”, continua Labianca. “E devo praticamente sempre informare il paziente degli eventuali effetti collaterali che i farmaci, o qualsiasi altro genere d?intervento, avranno su di lui. Talvolta devo anche chiedergli di firmare il ?consenso informato? e quindi è mio dovere parlargli, nascondergli il meno possibile, specie se entra a far parte di uno studio clinico. E sempre più spesso i pazienti chiedono se ci siano delle terapie alternative, meno pesanti da sopportare, meno invasive. E noi entriamo nel merito delle possibili alternative, gliele spieghiamo, gliele raccontiamo. E il paziente decide, con la nostra collaborazione, ovviamente”. In questa fase, nonostante le apparenze di indebolimento e di incertezza, il paziente oncologico è un soggetto sempre più cosciente. Vuol sapere se il suo ?problema? (come lo chiama delicatamente il medico) o ?la malattia?, come lui ha imparato ad accettarla, lo farà soffrire o no, se la terapia avrà efficacia o no, in altre parole, se la corda che lo lega alla speranza regga ancora o si sia un po? sfilacciata. “Io sono del parere, come molti altri colleghi”, dice il dottor Labianca, “che il paziente oncologico debba frequentare l?ospedale. Meglio, molto più spesso il day hospital, che è l?ambiente naturale per le terapie. C?è però un?importante novità da un paio d?anni che può modificare in parte questa impostazione: ci sono dei farmaci chemioterapici orali, tre o quattro (contro una ventina di farmaci che si danno per via endovenosa) che sono equivalenti ad alcuni schemi terapeutici delle cure endovenose, ma non possono sostituirle integralmente. Si utilizzano su pazienti anziani, che chiedono una terapia più morbida o magari abitano lontano”. “Sono contraria al trattamento dei tumori a casa”, conferma Milvia Zambetti, oncologo medico dell?Istituto dei tumori di Milano, “perché il medico deve vedere il paziente e la cura non può essere fatta per telefono o corrispondenza. Però, in certe fasi della malattia e in circostanze accertate di esigenze palliative invece che terapeutiche, si può comprendere…” Perché si può comprendere? Perché sono poche le strutture ospedaliere in Italia che dispongono di adeguate possibilità alternative o complementari, che consentano la cura in day hospital. O in hospice, dove si accompagna dolcemente il paziente all?ultimo commiato. Ma per ora sono poche gocce in un mare immenso di necessità. Nelle prossime settimane presenteremo alcune esperienze.


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